Due Lettere | Renato Mambor e Vincenzo Ricciuti
Qualcuno dei miei «legni verniciati», elementi dei miei precedenti lavori, è rimasto, residuo inutilizzato, ormai sterile di stimoli e suggerimenti come avanzi di un pasto già consumato.
Ho fatto un viaggio a Napoli e, cercando una cartolina da spedire, ho avvertito un’emozione sottile ed ansiosa, nel passare in rassegna le varie «marine», «vedute» del più comune assortimento di questo genere. Ma perché? Cosa provocava la mia attenzione e la mia partecipazione? Forse, mi compiacevo di avvertire tutte le oscillazioni del gusto in quella banale documentazione fotografica?
Piuttosto, invece, mi sembra di poter scorgere una latente schermaglia che si svolgeva in me, nell’impegno di sfuggire agli adescamenti pubblicitari, malgrado, la mia presuntuosa accortezza.
Fui più attento ad una illustrazione a colori della «Marina Piccola» di Capri: si vedeva, fra tanti uomini in costume, un bagnante sorridente, seduto sul bordo della piscina. Pensai subito di sostituirmi a lui: con quel sorriso, là, in quel posto. Poi, per autenticare quella mia identità, presi il battello e con la cartolina in mano, come una tessera, rintracciai il luogo.
Certo non ho agito per un’assurda coazione, ma per divertirmi ad indagare sulla proiezione di questi condizionamenti pubblicitari.
L’ufficialità della foto, angolata e colorata come in un disinteressato programma, sentivo che mi garantiva una realtà già selezionata e quindi etereamente animata, verso cui convergere come ad un arcano convegno.
Questo procedimento, monopolizza la realtà ed io mi studio di ricostruirne una disponibilità ancora oggettiva, usando gli stessi mezzi induttivi in modo da incorporarli immunizzando da una tirannica installazione (disegni simboli e metodi convenzionali) nelle nostre strutture. (Mica ho alzato la chisciottesca lancia contro qualcuno, ma parlo di un processo di assimilazione e disinfezione che riabiliti il senso morale).
Caro Vincenzo, non ti sembra che la mia partecipazione con l’omino si possa attribuire a quanto di bonariamente (ma efficacemente) demagogico trasuda da questi prodotti, e che è poi il loro stesso spirito?
Io l’ho afferrato e gustato, questo stesso spirito, nel superamento di quelle emozioni della più comune (quasi frivola) passività che io ho colto in me, senza scandalizzarmi in questa lucida accertenza.
È la stessa esperienza di superamento che io cerco di presentare, manifestare.
Tecnicamente non ho trovato niente di più efficace che usare quella che è ormai divenuta fase di passaggio più idonea (conservando la determinatezza dell’oggetto) tra la realtà e la sua notificazione: la fotografia.
Io me ne sono servito, però, dinamicamente, distinguendola nei suoi momenti e nei suoi attributi: negativa, positiva, bianco e nero, diapositiva, policromia, ecc.
Ognuna di queste voci contiene proprietà indicative che rimandano la nozione all’avvertenza dell’intero processo di sviluppo (parlo proprio di sviluppo fotografico).
Le mie più recenti opere sono ormai articolate con elementi fotografici di tipo didattico didascalico; anzi, ho intensificato questa forma fino a ridurre le figure a un contorno sagomale, quasi fossero l’equivalente figurale delle voci che potrebbero definirle.
L’intensità di cui ho parlato consiste proprio nel concentrare un concetto in un elemento monoverbale. Questi, montati in una tela «raccoglitrice» (poiché manca di qualsiasi manomissione) rimangono autonomi, autodefiniti: intendo fuggire da qualsiasi intervento manuale che, reso manifesto, creasse una reciprocità contaminatrice di queste «essenze». Una specie di processo designificatore, quindi, se lo si analizza fino a questo punto.
Al bando, allora, accostamenti con intenti significanti e induttori.
Una figura di aereo, ad esempio, la introduco solo se capace di conservarsi: «aeromobile più pesante dell’aria, capace di procedere e dirigersi nell’atmosfera per mezzo di organi propulsori = aereo».
Il concetto aeroplano, contiene così tutti quei predicati, ma io voglio che rimanga in questa ricchezza, senza scaricarsi in una vicenda o integrarsi in una qualifica.
Se opero in questo senso è per tradire e spodestare l’istinto deterministico ad adoperare schemi di lettura coatti dall’uso, riscattandoli col sottile stupore di nuove meditazioni ontologiche.
(r. m.)
Non te ne avere a male se ti confesso che nel periodo dei tuoi esperimenti sono sempre uscito dal tuo studio con una sensazione di torbidezza, che mi lasciavano tutti quei prodotti di ricerca cui mi era capitato di assistere.
Adesso, di fronte ai quadri che hai esposto recentemente alla «Tartaruga» provo, e forse anche tu, quell’atteso senso di espansione, e, ti dispiace? un pizzico di divertimento. La mia prima emozione è stata di natura estranea alle considerazioni che sto per fare: ho avvertito, cioè, come una riconciliazione: la tua umanità l’ho sentita riaccostarsi alla mia e questo mi ha già liberato di una brutta diffidenza.
L’annotazione riguarda tra l’altro la serena concordia con cui disponi le cose più disparate: con l’amore, mi pare, e la neutralità di un collezionista. Questa ultima definizione non è solo formale: le tue tele sono tutte nude, neutre, senza trame né sfondi, come semplice supporto di COSE, come una musica fatta più di pause che di suoni.
È vero che si tratta di cose disparate e mancanti di affinità prossime, ma proprio la distanza dei termini è il loro accordo se essa viene immancabilmente espressa dalla vuotezza della tela che si arricchisce così di latenze. La tela contiene ma non contamina anzi staglia, ancora oltre, l’autonomia degli elementi.
Non ho trovato, così, tracce di arroganza nei tuoi quadri, ma un forte senso di rinuncia; tutto è docile, pacifico (ma non servile) come se altrove le cose avessero avuto il loro travaglio.
Ogni velleità si è spenta, e l’oggetto è come sterilizzato, mummificato e introdotto in un album, elencato: il faro, antico nemico dell’insetto, è spento, neutro; l’ape è avvizzita.
Il contrasto è scaduto. Il treno, come un giocattolo, privo di qualsiasi riferimento ad una sua destinazione e il letto, simile a un ritaglio impaginato, si trovano assieme; ma tu non affermi né una camera da letto né una strada ferrata, in cui si verifichino delle violazioni come nella fenomenologia surrealista.
Non sfugge, però, un sentimento immanente; ad esempio l’eco malinconico «turistica» nel «Colosseo e farfalla».
Notammo, ti ricordi? qualche analogia con l’eterogeneità dei rebus, e quella dei tuoi accostamenti; possiamo vedere, però, che se nei tuoi quadri esistesse il movimento (che nei rebus deriva dall’interpolazione intellettiva) nell’interno di una ambiguità dei sinonimi e della traduzione verbale, l’emozione si scaricherebbe nella soluzione, e nell’arresto del movimento combinativo. Ciò, mancando in te, mi fa collocare i tuoi lavori in un genere di particolare metafisica, suscettibili di essere ricordati con la determinazione delle parole: merito anche della tua rinuncia ad ogni impulsiva accidentalità.
(v. r.)
Da “La Botte e il Violino”, secondo anno,
numero tre (1965)
Renato Mambor | Filiberto Menna
(…) Mambor ha posto la questione del segno iconico almeno dal 1964, quando comincia a dipingere le sue ormai note icone di figure umane, animali, oggetti, con una tecnica schematica e una semplificazione didattica affidate quasi per intero al contorno più che all’impatto del colore. In un certo senso Mambor si serve della rappresentazione per andare al di là di essa, per attingere una definizione dell’oggetto, una sorta di nominazione in grado di pervenire al massimo della denotatività. Di qui, l’impiego di una fattura impersonale, spoglia di ogni elemento caratterizzante «la scrittura personale» è affidata a un colore monocromo atto ad eliminare «ogni valore cromatico ed ogni enfatizzazione dell’agire».
Mambor si serve per questo di immagini riprodotte, di ricalchi di foto proiettate, con le quali costituisce una sorta di inventario o catalogo di immagini, «una specie di vocabolario iconico»: «Per portare avanti la ricerca di oggettività – scrive Mambor – mi servii allora di immagini già riprodotte. Inizialmente riportai i disegni della “Settimana Enigmistica” che avevano un forte carattere denotativo: soprattutto nei rebus le immagini sono letterali, perché devono essere il più possibile fedeli ai vocaboli che “rappresentano”: il gioco consiste infatti proprio nel rintracciare l’equivalente verbale del segno onde ricostruire la proposizione data».
Ancora una volta occorre dare atto a Mambor della sua lucidità critica, della sua capacità di condurre una doppia riflessione sulla pittura, una affidata alla pittura stessa mediante un esercizio raffreddato dei mezzi della rappresentazione che stacca nettamente il segno dal referente, l’altra a un esercizio teorico, a un “diario” critico che non esiterei a considerare uno dei più lucidi testi di artisti sulla propria opera e sui processi che presiedono alla costituzione dell’opera stessa.
Mambor insiste sulla autonomia del segno iconico, sulla frattura che lo separa dalle cose, sulla sua differenza, insomma. Per questo egli tende a riportare il segno iconico sullo stesso piano del segno verbale, e a «rintracciare l’equivalente verbale del disegno», come dice lui stesso, in modo da costituire una sorta di catalogo o Thesaurus delle nominazioni, verbali o visive non importa. E non credo di forzare oltre il lecito l’operazione di Mambor se affermo che egli colloca fin da allora l’opera pittorica sul piano di una proposizione, di un enunciato linguistico. Da questo punto
di vista, la posizione di Mambor nei confronti dei problemi posti dalla rappresentazione presenta più di una analogia con la pittura «fredda» di Magritte e con i paradossi logico-linguistici con cui il pittore belga mette in discussione il referenzialismo iconico. Questo apporto Magrittiano non mi era sfuggito, ma (e qui occorre fare un tanto di autocritica) allora non avevo dato la giusta collocazione alla tecnica di raffreddamento e di spostamento impiegata da Mambor se, in occasione di una mostra napoletana, nel gennaio del ‘66, riconoscevo che Mambor «tende ad isolare le immagini dal loro contesto imprimendo alle sequenze narrative una sorta di rallentamento progressivo fino a pervenire a una immobilità assoluta, a una fissità innaturale dei gesti che per ciò stesso assumono un aspetto inconsueto e appaiono destituiti dei consueti significati associativi», ma riconducevo in sostanza lo spiazzamento su un terreno più propriamente metafisico.
In realtà lo spostamento non tendeva a realizzare una situazione fabulatoria od onirica, bensì a scollare il segno dal proprio dal referente («l’immagine di un telefono, di una casa, di un ponte, di un albero è in fondo sempre rappresentazione, perché non è la cosa stessa») e ad assottigliare il più possibile la fisicità della stessa immagine fino a conferire ad essa l’immaterialità e la trasparenza dei nomi (…)
Roma, 1976
Il “club” di Renato | Maurizio Calvesi
(…) Mambor fin dalle sue prove più lontane, ma rimaste “classiche”, ha spogliato l’arte della funzione narrativa e di ogni elemento naturalistico (ivi compresa, appunto, la successione spazio-temporale del racconto), cercando di avvicinarsi a una visione il più possibile anonima – negazione dell’artista come individuo privilegiato – e convenzionale – apertura dell’arte all’universo livellante dei media-; ma ha poi qualificato questa visione reintroducendo a livelli come nascosti e ridotti ai minimi termini, o, proprio, subliminari, le suggestioni archetipali o direi fisiologiche dell’arte: il colore, la forma, (in questo caso la nitida geometria dei contorni), il bilanciamento della composizione, la sintesi del percorso spaziale (indietro, avanti) e temporale (prima, dopo) che è poi, appunto, il percorso stesso dell’occhio che guarda, ovvero della percezione.
Così l’arte “modifica” il dato: quello della modifica (che fa “cambiare pensiero”) è il principio più segreto (perché quasi misteriosamente legato al rapporto inconscio-coscienza) e insieme manifesto (perché dichiarato) dell’arte di Mambor.
Siamo di fronte, con l’opera descritta, a un perfetto manifesto dell’arte – degli anni Sessanta – che sembra voler rinunciare alla propria identità proponendo un ponte, o una discesa, verso le immagini della civiltà massificata, e così attualizzandosi; ma che al tempo stesso conserva, e rinnova, le prerogative inalienabili della propria suggestiva complessità immaginativa e formale, incentivamente appunto una percezione “diversa” di qualsiasi realtà, anche quella dei media.
Si tratta di un dialogo tra l’artista che attua una strategia di alleanza ma anche in verità di difesa, ed il proprio nemico avanzante, quel nemico che in seguito, si direbbe alla luce della situazione attuale, ha poi avuto la meglio, travolgendo ogni tattica e ogni mano tesa dell’arte. Il dialogo era tuttavia spontaneo e nasceva da un’autentica urgenza conoscitiva e sociale, giacché di strategia possiamo parlare solo in termini di metafora o, se preferite, come si usava dire, “di fatto”. E fu un dialogo che interessò contemporaneamente l’arte americana e quella europea, in particolare quella italiana.
Da noi, ho già avuto più occasioni di dirlo parlando di artisti come Mauri o Rotella, il “ponte” coi media si era istituito indipendentemente e in tempi non sospetti, ed è insensato non tener conto di questa autonomia. In effetti il discorso che ho appena speso per Mambor potrebbe valere anche per un pittore quale, poniamo, Lichtenstein: ma come non avvertire l’assoluta indipendenza e diversità delle opere di Renato non solo dall’artista americano, ma più in generale dalla celebre Pop Art? Questa indipendenza si alimenta, tra l’altro, di una in realtà maggiore complessità di pensiero e di strumenti, senza volerne indurre una gerarchia di risultati.
L’operazione Lichtenstein è quanto mai elementare: è una trascrizione di modelli “bassi”, riqualificati attraverso l’impiego di mezzi formali “alti”.
Quella di Mambor non si limita invece alla riqualificazione formale, ma introduce, grazie anche a quel retrocedere nel subliminare, una più sfumata sottigliezza di relazioni mentali (molto “europea”), un’attiva provocazione di tempi e di spazi, che aprono al teatro “concettuale” della sua arte, quale in seguito configuratasi. (Invece un Lichtenstein non ha avuto margini per sviluppare il proprio discorso, restando fermo al punto di partenza.
“Se nel mondo, ha scritto Mambor, vogliamo cambiare qualcosa modificando solo la struttura esterna non ci sarà una vera mutazione. Tra osservatore e oggetto osservato bisogna agire sui due poli”: ecco un’involontaria critica a Lichtenstein, ecco il senso diverso, nei due, della “modifica”).
Intanto Mambor ha ulteriormente esplicitato la convenzionalità e anonima moltiplicabilità dei suoi “omini”, riducendone la matrice a un timbro che (“azione” del 1964) offrì in uso al visitatore; il suo gesto d’artista, il suo criterio compositivo, poteva essere ripetuto e variato da chiunque, imprimendo il timbro in più punti liberamente scelti su un foglio.
Così il dialogo con l’immagine massificata diventava anche dialogo con gli altri, con quei fruitori dell’arte che alla massa, come lo stesso artista, appartengono, ma da essa (al pari delle immagini formalmente riqualificate) si eccepiscono per l’atto stesso di partecipare al soggettivo progetto dell’arte.
La strategia di difesa si allargava così a un’alleanza meno suscettibile di essere tradita. Si ipotizzava, insomma, la formazione di un “club dell’arte”, quello cui credo che dovremmo tutti al più presto tornare a pensare.
Con i “Cubi mobili” la stessa intenzione trovava un’altra forma: impressi con immagini standardizzate, che tuttavia lo spettatore può comporre a proprio piacimento. L’importante è “cambiare pensiero”: “l’arte è dentro la vita. Basta modificare il nostro sguardo.
Perché ciò avvenga è necessario cambiare pensiero”. Lo splendido “Diario” del 1967 allineava, come in una sorta di catena della solidarietà e soprattutto dell’interrelazione, una serie di allusivi omaggi ad amici pittori. (“Gli artisti a volte sono vicini, non perché è vicino l’oggetto del loro mostrare, ma perché è vicino l’oggetto del loro pensiero”).
Non descriverò le successive invenzioni dai “Giocattoli” all’“Evidenziatore” o al “ Riflettore”, né le azioni del 1969, dove l’uso del corpo è così acutamente messo al servizio di un’immedesimazione esistenziale nell’immaginario di un altro amico pittore, Emilio Scanavino. Non spetta infatti a questa introduzione, l’analisi dettagliata del percorso di Mambor. Sono però tutte invenzioni basate sul principio dello “scambio” creativo con amici e spettatori – soci appunto di quell’intravisto “club dell’arte”, o più semplicemente, pari a una comunità vagheggiata come tale, adoratrice di quell’aura dell’arte che è il prezioso legante di valori comuni, sogni, speranze, amore. “Poiché nella vita pratichiamo la divisione, l’uomo con un atto d’amore deve essere unito al mondo. Nell’arte, attraverso un linguaggio specifico, si ha un esercizio per praticare l’unità”. “Decisi poi – scrive ancora Mambor – di affidare l’Evidenziatore ad altri, lasciandoli liberi nell’interpretazione e nell’uso. Quando cioè iniziai l’indagine dell’Evidenziatore, allargai l’esperienza artistica da un oggetto finito, chiuso, ad un oggetto aperto a raccogliere pensieri di altri che entravano a far parte del lavoro. Avevo scoperto che ciò che mi interessava era non il “che”, ma il “come”, che non è importante l’espressività del soggetto ma una metodologia del fare che spinge ad esplorare sistemi sconosciuti. Ho ideato moduli, dispositivi diversi per innescare questa possibilità di realizzare rapporti intersoggettivi e sopraindividuali”.
A questo punto si apriva, come logica conseguenza ed estensione, l’esperienza teatrale di Renato: un capitolo fondamentale, che neanch’esso sarà da trattare analiticamente in queste pagine; ma di cui è indispensabile segnalare il rapporto di andata e ritorno con la pittura, rapporto che è di così intensa, originale suggestione. “Di nuovo la voglia di mettere in scena la pittura, di traslocare sul palcoscenico il mio studio, tele, cavalletti, barattoli, colori. Avevo delle vecchie tele, le ricoprii con uno sfondo monocromo ed iniziai a contemplarle. Feci un disegno di me ritratto di spalle che osservavo quelle superfici colorate. Analizzando il disegno mi accorsi di un’aria particolare tra la figura e la tela. C’era un’azione che non era il semplice guardare ma un’attività più intensa, più profonda. Era nato l’Osservatore. Ora dovevo semplicemente metterlo in scena. Le immagini inquietanti svelate dalle quinte incontrando azioni quotidiane agivano, cambiavano. Ma il movimento era anche in noi. Il teatro era strumento di consapevolezza. Le prove non erano solo prove dello spettacolo ma una ricerca continua del nostro sé”. L’Osservatore era nato dall’estensione della pittura al teatro e alla pittura doveva tornare, con gli anni Novanta. L’Osservatore è infatti il soggetto di quell’esperienza basilare dell’arte che è l’osservazione, in quanto strumento della vera conoscenza.
Per abitudine, dice Mambor, siamo propensi a giudicare più da ciò che sappiamo che da ciò che vediamo. L’attenta osservazione consente di cambiare il punto di vista, e quindi il pensiero. Mambor presenta l’Osservatore di spalle; tra noi e ciò che vediamo si interpone una figura che guarda le stesse cose che noi guardiamo, ma ci rende consapevoli che si può guardare anche in modi diversi. Siamo spinti a chiederci come osserva l’Osservatore, a istituire uno scambio e un confronto con il suo modo di osservare. E diventa lui stesso, a sua volta, un vivo oggetto della nostra osservazione.
La sua sagoma non è più stilizzata e convenzionale come quella degli “omini” degli anni Sessanta, ma somiglia a noi e agli altri visitatori della mostra, a cui si estenderà così il nostro bisogno di confronto e di dialogo. (Sento chiedere: ma ciò poi accade realmente? Accada o meno, o accada solo talvolta, questo poco importa per l’opera, il cui clima vive intensamente di questo suggerimento, tra utopia e spirito – in effetti accomunante – di gioco).
E ancora. Talvolta l’osservatore è dipinto sulla stessa tela che egli osserva, altre volte è una sagoma staccata nello spazio e mescolata alla nostra presenza. In ogni caso la sua immagine, subito riconoscibile e naturale, contrasta con la conformazione astratta del dipinto, come tale più suscettibile di svariate interpretazioni.
Ciò che l’Osservatore osserva è una figura della “realtà”, ma è anche una figura dell’arte, e lui stesso è una figura dell’arte. Il gioco dei rimandi si moltiplica, prendendo ovviamente in mezzo, anche il padre dell’Osservatore e primo osservatore egli stesso, vale a dire l’artista.
1991
In prestito dall’infinito Arte, simmetria e ordine | Achille Bonito Oliva
“La scultura, sarebbe il farsi-corpo di luoghi che, aprendo una contrada e custodendola, tengono raccolto intorno a sé un che di libero che accorda una dimora a tutte le cose e agli uomini un abitare in mezzo alle cose” (Martin Heidegger).
Ecco l’emblema filosofico di Renato Mambor, che individua la possibilità di fondare un luogo dell’arte non circoscritto ai generi tradizionali, non ancorato al semplice riferimento della pittura, della scultura, del disegno e della pura architettura.
In questo caso l’opera non è il frutto di uno sconfinamento o di un intreccio linguistico, bensì il risultato di una fondazione di un diverso spazio estetico, in cui non contano soltanto i singoli lacerti linguistici. Una pulsione wagneriana ha attraversato tutte le esperienze creative delle avanguardie storiche, e anche di alcune neoavanguardie del secondo dopoguerra, circa la possibilità di un’arte capace di totalizzare dentro di sé un ventaglio di linguaggi diversi tra loro e comunque intessuti in una interagenza spettacolare.
Un desiderio di onnipotenza attraversa il processo creativo dell’arte dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino alle esperienze del nostro secolo. Il linguaggio diventa l’attrezzo adeguato per proporre un confronto tra arte e vita, intesa come campo della complessità cui è possibile contrapporre un’altra complessità, quella dell’opera appunto, fatta di relazione tra linguaggi diversi.
Renato Mambor erge una sorta di diga estetica contro l’inerzia dell’esistente o perlomeno costruisce un confine interno, percorribile in uno spazio e un tempo reali. Se generalmente l’esperienza artistica fonda una temporalità e una spazialità metaforica, indicanti un periplo di pura fantasia, la costruzione di un luogo intrecciato intorno all’uso di vari linguaggi permette invece una possibilità di concretezza contemplativa che sostituisce il rapporto col quotidiano, seppure momentaneamente.
In qualche modo l’arte diventa la possibilità di spingere la vita verso una concreta impossibilità di articolarsi così come è. L’opera fonda un confine circolare entro cui si compiono reali relazioni e spostamenti. Lo spostamento riguarda l’esperienza psicosensoriale dell’artista e dello spettatore che si muove dentro un campo mobile di relazioni, realizzato dal sistema complesso di segni creati dal suo artefice.
Lo statuto della complessità diventa una componente che accompagna la costruzione dell’opera di Renato Mambor che non vuole sfidare la realtà sul versante della verosimiglianza, ma piuttosto della contrapposizione antagonista capace di creare stupefazione e meraviglia.
Le avanguardie storiche e quelle più recenti del secondo dopoguerra hanno adottato tale tentazione, come attitudine possibile che introduce un ulteriore tema, quello della costruzione dell’opera
(…)
L’arte ambientale degli anni Sessanta aveva allargato i varchi delle esperienze delle avanguardie storiche, ma le aveva anche ancorate a una costruzione di spazi in cui non esisteva se non una messa in scena dei processi di formazione dell’immagine, una pedante analiticità di stampo nord-americano con una inflessione orientale rivolta verso un desiderio di vuoto.
In Mambor invece esiste una tensione conoscitiva rivolta anche verso l’assunzione di risvolti che travalicano il semplice assunto formale, con una predilezione verso la rappresentazione di contenuti seppure trasfigurati formalmente attraverso l’elaborazione linguistica.
Il processo di conoscenza elaborato dall’opera riguarda non soltanto lo stato di complessità tecnica ma anche pulsioni interne e bisogni ulteriori che appartengono a un’idea del mondo. La maturità di questi artisti consiste nell’elaborazione di forme che aggregano elementi disparati tra loro ma dati in pura associazione. Invece negli anni Sessanta e Settanta la maturità sembrava consistere nella capacità di integrazione, apparentemente competitiva con l’integrata complessità dell’universo tecnologico. Saldare i vari elementi sembrava l’unica maniera di competere con un mondo in cui tutto sembrava strutturato in maniera adeguata. Invece questi artisti operano su di una diversa lunghezza d’onda, fondata su una elaborazione che non tende a mascherare la diversità, semmai a esibirla nella problematica unità dell’opera, come processo di aggregazione di diversi linguaggi che necessitano di un diverso trattamento.
In questo consiste la maturità di Renato Mambor, che richiede una perizia tecnica allargata, e nello stesso tempo una mentalità che non crede nell’integrazione tra arte e vita, ma semmai nella possibilità di creare un’opera fatta anche di interstizi fluttuanti tra le forme elaborate dall’arte e quelle preesistenti della vita.
In tal modo l’opera diventa quel luogo heideggeriano che non si contempla frontalmente come una vecchia scultura, ma il campo di riserva di un linguaggio capace di creare una dimora effettiva in cui lo spettatore possa fluttuare e respirare.
Accordare una dimora all’uomo e abitare in mezzo alle cose significa la capacità di non essere monolitici, al contrario irregolari fino al punto di muoversi lungo coordinate impalpabili e relative, tra punti di riferimento dislocati in maniera asimmetrica tra loro, con una felice afasia spaziale e temporale (…)
La modernità della posizione di Mambor è dettata proprio dalla condizione dell’opera, che prevede anche la distrazione e l’assentarsi, proprio come è concepibile “l’esserci” nell’esistenza in cui molteplici segnali attraversano l’esperienza secondo una vitale compresenza.
“La maggior parte degli scrittori – poeti soprattutto – lascia intendere che essi compongono in una specie di splendida frenesia – d’estatica intuizione – e avrebbero certo rabbrividito di spavento all’idea di permettere al pubblico di dar un’occhiata dietro le scene”, di vedere “le cancellature e le interpolazioni così penose – in una parola, le ruote e gli ingranaggi – i paranchi per i cambiamenti di scena – le scale e i trabocchetti, le penne di gallo, il belletto e i nei che, novantanove casi su cento, costituiscono gli accessori dell’istrione letterario” (Edgar Allan Poe).
Anche lo spettatore normalmente si illude che all’estatica intuizione corrisponda un’estatica contemplazione, una perfezione del momento fruitivo simmetrica alla perfezione creativa. II percorso erratico porta necessariamente a una conoscenza erratica, a un processo giocato sul dislocamento che non è mai istantaneo, perché non corrisponde alla posizione ottimale del cacciatore che si assesta nella stasi dell’unica mira. Qui l’opera è circolare e lo spettatore, non avendo le gambe e il collo impediti, deve compiere peripli molteplici su se stesso, avanzare e indietreggiare a seconda del percorso accidentato dell’opera.
Il percorso dell’arte di Mambor è accidentato, dunque, fatto di peripezie in avanti e indietro nello spazio e nel tempo. Tale mobilità è il frutto del movimento eccellente del linguaggio che si consolida nella forma, in cui si condensano passato, presente e futuro. In questo l’opera non è mai fuori dalla storia. “La storia è un angelo che è stato soffiato indietro nel futuro. La storia è un gran cumulo d’immondizie e l’angelo vorrebbe sistemare le cose che sono accadute nel passato. Ma un vento forte che arriva dal Paradiso spinge l’angelo verso il futuro. Questo vento si chiama progresso” (Paul Klee, Angelus Novus).
Ma un progresso diverso da quello delle avanguardie tradizionali.
Perché Mambor ha un afflato metafisico che gli lascia sospettare ordine e simmetria superiori al nostro vivere.
Dal catalogo, “Renato Mambor, In prestito dall’Infinito”
Napoli, Castel S. Elmo, 2009
Il fermo immagine: la realtà sospesa tra teatro e pittura | Lorenzo Mango
Verso la fine degli anni sessanta Renato Mambor realizza una serie di opere che intitola Azioni Fotografate. Si tratta di scatti fotografici in cui l’artista è rappresentato nell’atto di compiere una serie di gesti che possono essere azioni quotidiane spiazzate, come stirare in mezzo ad un prato, o “deformate” come tentare di saltare con le gambe saldamente legate a delle tavole di legno che gli impediscono il movimento. Ne scrive lo stesso Mambor: “Un mio lavoro fotografico del ‘69 mi ritraeva con le gambe bloccate da lacci e staffe di legno mentre tentavo di saltare a corda. Mi chiedevo come far funzionare quell’idea di estendere nel tempo questa immagine, come portarla alle estreme conseguenze. Le Azioni Fotografate bloccano in fermo immagine stati psicologici, sintesi corporee, come quando c’è un impedimento e si sente un cerchio alla testa, un buco allo stomaco, un peso sulle spalle, quando ci si chiede: come posso risolvere, dove posso andare, come posso nascondermi alla vita che mi fa soffrire. Mi legai i piedi con corde e legni frontalmente ad un danzatore che reagisse a specchio ai miei tentativi di saltare a corda. Effettuammo diverse improvvisazioni per estendere l’emozione e i gesti finché all’improvviso Giovanna Summo alzò un pannello occultando la mia azione. Cambiare scena come cambiare pensiero”.[1]
È un momento particolare nella vicenda artistica di Mambor: il momento di mettere in crisi, ma per tanti versi anche di sviluppare, la ricerca squisitamente pittorica condotta sino ad allora. Le Azioni Fotografate rappresentano il momento in cui l’artista non si cela più dietro un segno altro da sé ma si espone in prima persona, si da come oggetto del suo stesso fare. Mambor, però, sceglie che tale atto soggettivo venga comunque mediato, filtrato; di qui l’idea non tanto di documentare fotograficamente un evento performativo, quanto di sostituire l’evento stesso con lo scatto fotografico che diventa esso stesso la performance. Tutto è contenuto lì, in quell’animo sospeso che prevede un prima e un dopo, un inizio e uno sviluppo; ma li cela, li nega, li ferma. Li sospende appunto. L’azione è il fermo immagine, il segno di un’azione assente.
Il fermo immagine, nelle Azioni Fotografate diventa il denotatore di uno stato fisico che è, al tempo stesso, uno stato psicologico. Negando del tutto la rappresentazione di un’azione, ne isola un istante e al tempo stesso ne evidenzia lo stato emotivo. È un modo per indicare quel tutto, staccandolo dalla sua stessa integrità.
Per molti aspetti le Azioni Fotografate sono parte di un più complessivo tradimento della pittura che caratterizza il contesto artistico di quegli anni; oramai decisamente aperto verso la dimensione performativa, basti pensare alla rassegna “Teatro delle mostre” della galleria La Tartaruga di Roma o alle “azioni povere” di Amalfi.
Nel caso specifico di Mambor, pur corrispondendo sicuramente a questa più estesa tendenza epocale, le Azioni Fotografate stanno anche a significare altro, e questo altro credo vada colto proprio nel fermo immagine come elemento di evidenziazione di un altro da sé del reale, celato nel reale stesso.
Già nella ricerca pittorica condotta sino a quel momento è possibile rintracciare segnali interessanti in questa direzione. In Timbri, o in Uomini statistici – e soprattutto con la serie di opere che fissano, in modo stilizzato e raffreddato, gesti quotidiani – Mambor agisce, anche se all’interno del codice pittorico, verso la dimensione mentale del fermo immagine. Esponente integrante della Scuola romana, che reagiva all’Informale con una rinnovata e particolare attenzione per la rappresentazione, nelle sue opere dei primi anni sessanta Mambor si poneva il problema di una figurazione de! mondo che, lontana dal rappresentarlo, lo trasformasse in codice visivo, in segno. Di qui la scelta della silhouette come elemento di spersonalizzazione “raffreddante” che blocca il gesto in un atto incompiuto, sospeso tra un qui e un altrove, totalmente decontestualizzato. Indizio di realtà piuttosto che sua figurazione.
Quando sceglie con le Azioni Fotografate di muoversi fuori dalla cornice e di “invadere” direttamente il reale, Mambor lo fa utilizzando un codice visivo certamente nuovo, ma conservando, se così possiamo dire, la sua passione di indicizzare il mondo, di farne segno. Solo che il segno, volutamente raffreddato nella pittura, così che quei corpi umani risultano privi di personalità e di emozioni, nell’azione fotografata si riscalda di una partecipazione individuale e soggettiva. Lo stesso Mambor lo esplicita parlando di “stati psicologici” e di “sintesi corporee”[2].
Lette nel complesso della produzione di Mambor, le Azioni Fotografate appaiono come un’isola, un momento estremamente specifico e circoscritto. Osservate con più attenzione esse si rivelano invece come un esperimento importante per comprendere i suoi processi creativi e soprattutto per comprendere l’approdo al teatro ed il rapporto che lo lega e lo distingue dalla pittura. “Cambiare scena come cambiare pensiero”[3], dice Mambor, e la sua affermazione è chiarissima: da un lato l’azione fotografata assume un suo significato proprio nel momento In cui viene scandita, circoscritta da una cornice di natura teatrale che la iscrive e la separa del tutto dall’altro, essa apre la via ad un momento di natura teatrale in senso proprio, qualcosa che ancora ovviamente le azioni fotografate in sé non sono.
Ma per capire appieno modalità e ragioni linguistiche della scelta teatrale, occorre prendere in considerazione un altro elemento che si origina all’interno dell’attività di artista visivo. Nel 1972 Mambor realizza un oggetto dalla forma particolare, una specie di congegno meccanico dotato di chele la cui funzione risulta a prima vista enigmatica. È un oggetto destinato non tanto ad essere esposto quanto ad essere messo a disposizione dei visitatori perché ne facciano uso. Il manifesto che introduce la mostra è esplicito: “Che nome gli daresti?” è chiesto al visitatore; e poi si aggiunge “sei invitato a prendere contano con l’oggetto”. L’idea di Mambor è che quella sua strana “creatura”, non dotata di alcuna sua peculiare qualità estetica, possa essere uno strumento per indicare, evidenziare appunto, le cose. Lo si prende, lo si applica ad un oggetto, e questo viene “evidenziato”, come sottolineato da quel semplice gesto. A voler tornare ad utilizzare il concetto da cui siamo partiti, Evidenziatore è una forma particolare e specifica di fermo immagine: esso sospende momentaneamente l’oggetto dal suo luogo, dalla sua funzione e dal suo contesto e lo indica per quello che è. È un gesto dichiaratamente duchampiano, ma secondo modalità e in un’accezione personali. Mentre con il ready made Duchamp isola in quanto separa, sottrae e ricontestualizza, Mambor si limita a sospendere, per il breve tempo del fermo immagine, l’oggetto e, per sineddoche, la realtà tutta. Rimanda a Duchamp, allora, ma forse soprattutto al Duchamp ultimo e più estremo, che pensava di ridurre il ready made al semplice atto artistico di indicare. Evidenziatore indica in quanto sospende.
Evidenziatore è, dunque, l’ennesima tappa verso la dissoluzione e la decostruzione totale dell’attività artistica come attività pittorica. Adesso non c’è più neanche il sostituto di un’azione performativa fotografata, ma la costruzione di un oggetto messo a disposizione del pubblico per poter giocare ad indicare il mondo. Detto questo, viene da chiedersi, pensando alla premessa con cui lo abbiamo introdotto: cosa c’entra Evidenziatore con il teatro? Se per le Azioni Fotografate il rimando poteva avvenire in maniera abbastanza diretta, evidentemente in questo caso non è così. Apparentemente, infatti, tra Evidenziatore e teatro non sembra esserci alcun contatto, eppure tale contatto non solo c’è ma è determinante. Quando, nel 1975, Mambor decide di realizzare il suo primo spettacolo, Esempi di arredamento, l’idea da cui parte è di creare un evento – nato dalla collaborazione con altri artisti (Claudio Previtera, Lillo Monachesi, Rodolfo Roberti) – che partisse dalla costruzione di un oggetto, tridimensionale stavolta, che servisse agli attori/artisti come elemento di partenza, spunto spaziale e drammaturgico attraverso cui esprimersi ed agire. Di questo – come di tutta una serie di spettacoli che lo vedranno impegnato tra la metà degli anni settanta e la metà degli ottanta, con una propaggine/epilogo nel 1993 – Mambor è regista e autore. Ma la sua autorialità nel teatro si manifesta in termini diversissimi da quella pittorica, e non solo, ovviamente, per il mezzo scelto, ma perché, più a monte, teatro per Mambor è scambio, collaborazione, comunione creativa. Più che di un’autorialità in senso stretto (anche se indubbiamente Mambor è stato autore a tutti gli effetti del suo teatro) potrebbe essere più giusto parlare di direzione. Mambor dirige lo scambio umano, lo indirizza e lo scrive all’interno dell’azione scenica. Non a caso degli anni settanta è anche l’incontro col gruppo di terapia gestaltica di Paola Mazzetti che lo pone a contatto col problema del sé e della sua manifestazione
nello scambio con l’altro. Il teatro è, dunque, anzitutto un luogo di comunione umana. In linea con quanto accade con il “teatro teatrale” di quegli anni, Mambor costituisce un gruppo, così che la creazione nasca come fattore condiviso.
L’idea drammaturgica di partenza, dicevamo, è la costruzione di un oggetto scenico che sarebbe limitante ridurre alla sola dimensione scenografica. Si tratta, infatti, di un vero e proprio soggetto drammatico/drammaturgico che origina e genera l’azione teatrale. Questo oggetto è la “trousse”. “II nome – specifica Mambor – significa astuccio o fodero per utensili vari. Borsetta per signora. Vari contenitori. Astuccio per barbieri. Borsa di ferri chirurgici” e, riguardo alla sua fattura: “Chiamai così una scultura di profilato metallico vuota all’interno che ospitava un attore. La scatola aperta del piccolo teatrino si riempiva di esperienze, fantasie, ricordi del soggetto assistito dal collettivo di artisti che forniva collaborazioni ognuno dal proprio specifico”[4].
La Trousse, dunque, è una sorta di scatola che si apre a rivelare il suo teatro interiore. Può essere interessante continuare a leggere cosa ne scrive Mambor in un appunto manoscritto che ne illustra il disegno. Dopo aver nuovamente dato la sintesi della forma e dei materiali, Mambor scrive: “Tale definizione di spazio può essere riempita (arredata) con materiale espressivo. Attraverso questo processo l’operatore entra in rapporto dialettico con il gruppo, poiché la struttura stessa è aperta alle più diverse espressioni individuali”. Trousse, conclude “è uno spazio che aspetta di essere riempito: è uno spazio che vuole essere vissuto; è uno spazio che deve essere arredato; è uno spazio che sarà personalizzato”. L’insieme di tutte queste affermazioni
è straordinariamente importante per comprendere le dinamiche creative che hanno condotto Mambor non tanto genericamente al teatro, ma ad inventare il suo di teatro, e capire quanto e come tali dinamiche siano interrelate con quelle che lo avevano condotto all’Evidenziatore.
Trousse nasce come un momento di esercizio di creatività Iaboratoriale. È offerta ai partecipanti (in modo più complesso, certo, ma coerente con quanto proposto con Evidenziatore) come strumento di sollecitazione espressiva. Il suo essere, molto semplicemente, una scatola, la trasforma in una sorta di finestra interiore, di cornice, arredando la quale (il termine è di Mambor) si comunica il proprio essere. Visivamente è un oggetto scenico che, specie nei primi due spettacoli – il citato Esempi di arredamento e il successivo Edicola Trousse – assolve ad una funzione totalizzante, diventando esso stesso l’intero spazio dell’azione. In seguito, specie in quello che è lo spettacolo forse più significativo di Mambor, Nato Re Magio (1979), entrerà a far parte di una costruzione scenica più articolata e complessa, ma sempre dichiaratamente antirappresentativa. Trousse è il vero motivo drammaturgico dell’azione. Se non è direttamente il
materiale narrativo – tenendo conto che quello di Mambor è un teatro che non prevede implicazioni narrative lineari ma solo, quando ci sono, allusioni figurali – è certamente la condizione prima della possibilità stessa di ogni dichiarazione narrativa. Nello scritto che ci è già occorso più volte di citare, Mambor scrive a proposito dei suoi spettacoli (avrà anche un’attività di regista di testi drammatici di altri autori, ma tale aspetto resta un po’ fuori dal nostro discorso attuale): “Ogni spettacolo che mettevo in scena veniva mosso da una concezione di spazio, non come scenografia ma come luogo mentale, che determinava l’impostazione registica e produceva un luogo fisico da arredare con materiali pittorici. Spesso lo spazio scenico si configurava come luogo altro, decentrato dalla sala dove convenzionalmente si svolge Il dramma. Suggeriva piuttosto un pianerottolo, un atrio, un retro bottega, una sala d’attesa, un cortile; un luogo di decantazione, di preparazione, di caricamento”[5]). Lo spazio, dunque, come condizione drammaturgia di partenza. Anche questo dato, come altri d’altronde che caratterizzano il teatro di Mambor, possono essere ricondotti ad un certo modo di intendere l’opera e la produzione creativa teatrale che venne definito come “scrittura scenica”, ma anche in questo caso, c’è una precisa declinazione soggettiva[6].
Alla radice dell’idea di spazio come condizione mentale, luogo di decantazione, di caricamento drammatico vi è la Trousse. Una sorta di spazio miniaturizzato di spazio en abîme, in quanto isola, circoscrive, evidenzia e, al tempo stesso, crea una relazione tra chi la abita e la arreda e chi è fuori. Un piccolo luogo scenico che da un lato è una premessa di teatro, perché induce a compiere azioni, dall’altro indica il teatro stesso come sineddoche, in quanto evidenzia un particolare del vissuto e ne fa un mondo. Quel luogo mentale che, isolandoci dal mondo, al mondo ci consente di guardare, che isolandoci dagli altri con gli altri ci mette in una relazione più autentica, è il teatro nella sua essenza antropologica, prima che linguistica, più pura.
Dunque il teatro si presenta nella sua prima formulazione, in Mambor, come una nuova, particolare dimensione di fermo immagine. Stavolta il fermo immagine riguarda il vissuto di chi mette in azione la Trousse, di chi la anima arredandola di sé, evidenziando così una parte del suo stato interiore che mostra sospeso allo scambio con l’altro. Il teatro, a dirla diversamente, è il luogo mentale che indica l’uomo. A ben vedere, anche se le differenze sono tante e sensibili, c’è come un filo rosso di continuità nel lavoro di Mambor, in nome della evidenziazione e della sospensione che avviene tramite lo sguardo: da quella dei gesti dipinti, all’azione fotografica, all’Evidenziatore, fino a Trousse, c’è sempre la ricerca di un segno che agisca all’interno della
realtà per sospenderla dal tempo e dallo spazio e farne segno. Segno esteriore, come era nella pittura, segno reale come nelle azioni e nell’Evidenziatore, segno umano nel teatro. Questa Linea di continuità, oltre a chiarire le dinamiche del progetto artistico di Mambor, spiega anche perché teatro e pittura, nella sua storia, non si assommano ma, per tanti versi, si escludono a vicenda. L’attività teatrale non significherà aggiungere alla pratica della pittura una nuova esperienza artistica, ma cercare in una nuova esperienza artistica qualcosa di analogo, diverso e complementare a quanto raggiunto con i quadri. È uno spostamento di segno e di senso e non una curiosità linguistica quanto spinge Mambor al teatro. Alla metà degli anni ottanta accade un processo inverso. Nel 1983 realizza uno spettacolo, Gli osservatori, composto da una serie di azioni legate, attraverso il rapporto tra il Maestro di bottega (lo stesso Mambor) e gli Apprendisti, alla pratica della pittura. L’azione scenica è congegnata come una successione di quadri viventi al cui interno trovano spazio alcune delle azioni fotografate, realizzate stavolta, però, dal vivo[7]. Sembra quasi che, con Gli osservatori, Mambor tenti un luogo di sintesi tra le sue diverse anime e sicuramente un simile aspetto è presente nel lavoro. Ma il dato su cui vale la pena soprattutto fermarsi forse è un altro. È la fine degli anni ottanta, oramai, e la parabola teatrale di Mambor si conclude, iscrivendosi come una parentesi (ma una parentesi determinante) nella sua attività di pittore. Gli osservatori, nati in teatro come evidenza di uno sguardo scenico rivolto metaforicamente alla pittura e al suo farsi, conducono Mambor a dirigersi nuovamente e tecnicamente alla pittura. Lo ricorda così, questo passaggio: “Questo cambiamento nello sguardo verso le cose, di me nelle cose, mi portò a rivisitare il tema degli osservatori, nato in teatro, attraverso lo strumento della pittura. Avevo ritagliato una mia sagoma disegnata di profilo, l’avevo attaccata sul vetro della finestra per fotografarla. La foto riprendeva la sagoma ritagliata e il verde reale del giardino di fronte. Mi rivelò lo spazio e il tempo che intercorrono tra osservatore e cosa osservata. Chiesi a Patrizia di fotografarmi di spalle”[8].
Nascono così – non tanto dalle forme dello spettacolo ma dall’ipotesi drammaturgica contenuta nel suo titolo, il porsi di fronte per essere in relazione – una serie di nuovi quadri, un nuovo paesaggio pittorico che recupera la sagoma stilizzata della silhouette ma la applica stavolta al pittore stesso. Mambor è caduto nei suoi quadri ed è destinato a restarci. I quadri e la pittura conterranno sempre, e vorrei dire sempre di più, una connotazione teatrale. Figure sospese, immagini in attesa, personaggi in osservazione: la forma della rappresentazione torna, anche nella dimensione pittorica, a farsi sospensione, attesa, fermo immagine. Uno stare dentro ed uno stare fuori, condizione che Mambor attribuisce alla condizione stessa della pittura, intesa come un modo di essere, prima ed oltre che una tecnica per generare immagini. La pittura è una questione di sguardo. II teatro è una questione di sguardo. “II pittore – scrive – è un uomo che cammina sempre dentro e fuori. Ha la capacità di distaccarsi; senza il distacco noi non possiamo camminare”[9].
[1] Renato Mambor, Nato Re Magio. Scritti sul teatro di Renato Mambor e Patrizia Speciale, dattiloscritto inedito, p. 29
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] Ibid., p. 4
[5] Ibid., p. 39
[6] Mi permetto, per questo aspetto, di rimandare al mio La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Bulzoni, 2003.
[7] Una precisissima ed utilissima ricostruzione analitica e ragionata degli spettacoli di Mambor si trova nella tesi di dottorato di Anna Borriello, La spettacolarizzazione dell’arte. Due esperienze italiane: Renato Mambor e Michelangelo Pistoletto, discussa nel 2006 presso l’Università di Napoli “L’Orientale”.
[8] Renato Mambor, Nato Re Magio, cit., p. 45.
[9] Ibid., p. 9
Scorgere l'infinito nella rete della vita | Gianluca Ranzi
Vedere il mondo in un granello di sabbia
E il cielo in un fiore di campo
Tenere l’infinito nel palmo della tua mano
E l’eternità in un’ora.
William Blake
Esperienza. Acquisire, sollecitare e trasmettere esperienza. Mi pare questa una caratteristica fondamentale dei mezzi con cui, dalla fine degli anni Cinquanta fino ad oggi, si è svolta la ricerca artistica di Renato Mambor. Il suo percorso non si è mai mosso dall’analisi dei sistemi, bensì a partire da un livello precedente: ha evidenziato una grammatica minima della percezione, riconducendosi fin dall’inizio agli elementi fondanti della visione per ri-fondarla e far affiorare un rinnovato senso di appartenenza al mondo e di totalità dell’essere.
Per questo aspetto il lavoro di Mambor condivide l’orizzonte concettuale che ha trovato massima espressione in Fluxus, in Gutai e in parte nell’Happening, esperienze che nascono proprio negli stessi anni in cui egli cominciava a produrre. Nelle sue prime serie dei Segnali stradali, degli Uomini statistici e dei Ricalchi prende infatti piede un atteggiamento che tende via via a negare i predominanti modelli visivi della cultura artistica tradizionale giunti incontrastati fino agli anni Cinquanta. Mambor infatti attenua, se non elimina del tutto, l’io soggettivo dal quadro che viene cosi emancipato dalla carica individuale dell’artista-creatore; quello che resta è una superficie piatta dove si affiancano vari accadimenti bidimensionali, uno spazio anticontemplativo e impersonale che richiama la fertilità della tabula rasa degli Achromes di Piero Manzoni, i 4 minuti e 33 secondi di silenzio (e di suoni involontari) di John Cage, come pure la quotidianità estenuante degli Events di George Brecht o l’interattività di certi primi Happenings di Allan Kaprow, come Pastorale del 1958 o Push and Pull del 1963.
Cosi come l’artista viene de-territorializzato dalla sua posizione accentratrice e riassorbito nella dinamica che ora lega l’opera a chi vi partecipa, lo spettatore per conto suo viene indotto a rinunciare a quella sua posizione idealizzata e passiva che implicava uno sguardo monopolizzato e diretto da e su un unico punto prospettico. E’ per sfuggire a questa empasse che faceva dell’artista un soggetto imperioso che infonde il suo contenuto allo spettatore, che vengono inaugurati nuovi modelli esperienziali di visione e di percezione, acutamente registrati nel 1979 da James Gibson in L’approccio ecologico alla percezione visiva, dove si definisce ecologico quel nuovo modo di comprensione della visione e della sensazione umane orientate da una rinnovata capacità di esperire il quotidiano a partire dai suoi elementi di base, dalle sue cellule fondanti. Operando all’interno di questo orizzonte anche le opere di Mambor creano un diverso atteggiamento esperienziale caratterizzato dalla dissoluzione dei confini e delle separazioni care all’epistemologia occidentale, tra cui in primis la tradizionale netta distinzione di ruolo tra soggetto e oggetto, quella stessa che è all’origine di gran parte della tradizione filosofica dell’Occidente.
Da questo punto di vista l’approccio ecologico di Mambor significa innanzi tutto fare appello a un tipo di esperienza non-gerarchica per cui tutti i fenomeni dell’esistenza, per quanto diversi tra loro, hanno una sostanza comune e connaturata. Arrivare a comprendere e a riconoscere non tanto il senso, quanto l’esistenza di questo livello di interconnessione, diventa il fine dell’opera dell’artista, che ritrova nella corrente che unisce l’uomo all’universo il ritmo della vita che scorre dentro ogni individuo, dentro ogni minuscolo e inconsistente dato dell’esperienza, che diviene oggetto di indagine e d’attenzione, proprio come nei versi di Blake.
L’operazione dell’Evidenziatore del 1972, che materialmente afferrava oggetti d’uso comune o situazioni quotidiane per portarle a livello di una consapevolezza anch’essa ecologica che univa più profondamente l’uomo al suo ambiente e alle sue relazioni, può anch’essa essere letta alla luce di questa attenzione di Mambor a rivolgersi a un tipo di esperienza diretta e non filtrata delle cose, un’esperienza per i fenomeni comunemente riferiti come primari, colti nell’immediatezza della loro presenza e non ancora inseriti nella sistematizzazione e nell’interpretazione dell’esperienza secondaria.
Risalendo a tempi più vicini a noi fino ad arrivare alle opere pittoriche più recenti, comprese quelle presenti in mostra e su questo catalogo, ci si può chiedere se e come sia possibile identificare anche in esse lo stesso atteggiamento di decentramento soggettivo, anti-prospettico e anti-gerarchico evidenziato nei primi cicli pittorici e nelle opere successive come i Ricalchi del 1964, i Diari del 1967, gli Itinerari del 1968, le Azioni per benefici invisibili e l’Evidenziatore del 1972. Per farlo userò lo schema messo a punto nel 1983 dalla studiosa Svetlana Alpers per distinguere le caratteristiche della pittura olandese del XVII secolo da quella della tradizione rinascimentale italiana. Curiosamente infatti il lavoro di Mambor corrisponde pienamente ai punti usati per descrivere la pittura fiamminga che la studiosa americana fornisce nel suo saggio The art of describing: Dutch art in the Seventeenth Century: 1) attenzione infinitesimale per le piccole cose e i minimi episodi di realtà, 2) la luce riflessa che scivola via dagli oggetti che vengono definiti in virtù del loro contorno piuttosto che dalla loro ombra e tridimensionalità, 3) l’attenzione per le superfici e le textures degli oggetti a discapito della loro scansione in profondità secondo una griglia prefissata, 4) la figura libera nello spazio che non presuppone un ideale punto fisso d’osservazione per lo spettatore. Ed ecco gli stessi punti declinati secondo la fisionomia dello opere di Mambor: il gusto del frammento e gli accostamenti di immagini eterogenee sono evidenti in installazioni quali Connessioni e Sprint, l’arbitrarietà del contorno e l’illusione delle apparenze appaiono in sculture come l’Arte è come l’ombra e Ombra immutabile, il senso di prossimità e di immediatezza tattile dei materiali in installazioni come Separé e i quattro Portatori. In sintesi, tanto quanto l’antica pittura olandese, Mambor rinuncia a quel controllo scopico che imprigionava l’osservatore all’interno di una griglia prospettica e guadagna invece l’evidenziazione della presenza umana in sé e per sé. Se ora è evidente come il lavoro di Mambor intrattenga un rapporto privilegiato con il tipo di esperienza definita primaria, resta da vedere cosa questo gli consenta e quali scenari, anche metafisici, spalanchi sull’opera. Opere quali Separé o l’Arte è come l’ombra sono fatte non solo per essere viste, ma anche per essere toccate e “sentite”, perfino “riempite” dal gesto dell’altro. Questa dinamica esperienziale connette la consapevolezza dell’essere al mondo con le cose, legandole in un unico ordito indivisibile e instillando la coscienza di un senso di integrità e pienezza dove la superficie e la profondità si sovrappongono, passato, presente e futuro collimano, l’individuale e l’universale coincidono, il materiale oggettuale e la risposta soggettiva si fondono.
Allenandosi ad esperire le cose per quello che sono, diventa più facile comprendere il senso della nostra presenza al mondo, incorporando dentro al sé individuale un senso allargato dell’essere universale, segnando oggi una rottura radicale con le posizioni dominanti dell’arte contemporanea, caratterizzate dall’inconsistenza delle forme di Jeff Koons, dall’urticante negatività di Bruce Nauman e dall’inutile spettacolarità di Damien Hirst. Al contrario per Mambor l’interrogazione sulla natura dell’immagine attraverso il ricorso all’esperienza primaria apre il campo a una dimensione filosofica e spirituale che gli permette di vivere la pratica dell’arte come una pratica ascetica che pur tuttavia non separa dal mondo ma gli fa pensare al ciclo vitale come a qualcosa che si trasforma continuamente. Il ruolo dell’arte non viene separato dalla vita quotidiana ma è anzi agganciato ad essa per risvegliare innanzi tutto il corpo dello spettatore, provocandovi una sorta di choc percettivo per immagini che sono, come nel caso di Sprint, al tempo stesso familiari e perturbanti.
Non trovo parole migliori circa lo spirito che anima opere quali Fili o Connessioni di quelle che Hermann Hesse usa nella fiaba Metamorfosi di un pittore per descrivere il senso di appartenenza al tutto e di individuazione di un presente che è in realtà un brulicare dinamico di possibilità future: “Era trasformato. E siccome questa volta aveva raggiunto la giusta metamorfosi, quella eterna, perché da una metà era divenuto un intero, da quell’ora poté ulteriormente tramutarsi in tutto ciò che voleva. La magica corrente del divenire fluiva costante nel suo sangue, ed egli era eternamente partecipe della creazione che ora per ora si rinnovava. Diventò capriolo, diventò pesce, diventò uomo e serpe, nube e uccello. Ma in ogni figura era intero, perché era una coppia, aveva luna e sole, aveva uomo e donna dentro, scorreva per le terre come fiume gemello, brillava in cielo come stella doppia”.
Anche per Mambor l’esperienza, quella estetica e quella del mondo, significa concentrazione,
contemplazione e illuminazione, è un bagliore che trasforma le immagini ordinarie della vita quotidiana svelando, oltre la superficie che appare, le loro sotterranee connessioni col tutto che ci circonda.
I fili che evidenziano tali profonde connessioni appartengono a immagini costruite per accumulo e mai per opposizione o contrasto, in esse le coppie non si fronteggiano ma si compenetrano in io e mondo, morte e rinascita, ascesa e discesa, come avviene nel recentissimo ciclo dei Portatori di pioggia presentato alla Biennale di Venezia nel 2011. Le opere di Mambor sono composte secondo questo particolare meccanismo costruttivo per cui le opposte nature che in esse convivono mantengono le loro differenze senza annullarle (come avviene in Ombra immutabile), ma è come se le invertissero secondo un vecchio adagio già caro a Jung e da lui definito enantiodromia, per cui l’annientamento diventa rinascita, il sé diventa noi, il corpo spirito. L’artista allora si fa carico di ri-unire i fili sottesi al vivente, di farsi garante della connessione che porta la pioggia dal cielo alla terra, di evidenziare così la fonte e l’origine di tutte le esistenze possibili, da cui provengono e ritornano tutte le forme viventi. Nei Portatori di pioggia l’acqua diviene un elemento cosmico, un movimento di immersione e emersione, distruzione e rigenerazione, un modo per percepire l’infinito della natura in cui l’uomo è inserito e, come già avevo scritto in occasione dell’installazione di quest’opera in laguna, un modo per eliminare le linee dell’orizzonte che interrompono e limitano la percezione di uno spazio che è invece senza confini. E del resto l’acqua, che sia pioggia, laguna, liquido amniotico, è simbolo dell’elemento femminile/materno in cui gli opposti coincidono: l’uno e il tutto, l’essere e il nulla, la nascita e la morte. Tornare alla Madre significa, ancora per Jung, tornare a un’origine indifferenziata in cui si perde l’identità individuale e diventa pensabile quell’ipotesi di rinascita infinita e di infinita trasformazione che sottende ogni destino individuale e lo collega al tutto, come è del resto anche testimoniato in antropologia nei culti delle Dee Madri.
Questa circolarità che abbraccia il già creato a quanto sta per esserlo è anche all’origine di alcuni cicli di opere di Mambor che si possono anche leggere come un profondo ripensamento sull’idea del tempo e sul suo essere parte di un ciclo vitale di generazione permanente. Mi riferisco a cicli come il Diario del 2007 e il Diario futuro del 2012, presente in questa mostra e pubblicato su questo catalogo. Entrambi i cicli presentano infatti puntuali riferimenti con opere passate, rispettivamente con il Diario degli amici e con alcuni momenti decisivi del percorso artistico di Mambor. Questi riferimenti vengono però tradotti e risistemati in nuove costellazioni di significati e di rimandi, che aprono su nuove conformazioni e preludono a svolgimenti futuri. Al di là quindi della considerazione di questi cicli per il loro prezioso valore antologico rispetto all’evoluzione interna del lavoro dell’artista, in questa sede e a questo punto del discorso mi sembra più significativo sottolinearne il senso legato ad una visione circolare del tempo in cui l’attimo presente contiene gli effetti del passato e le cause del futuro.
Diario futuro colpisce quindi per il suo non appartenere né al passato, né al presente, né al futuro, ma a una sorta di incessante simultaneità che sarebbe indubbiamente piaciuta ai Futuristi, in particolare a Umberto Boccioni di Forme uniche nella continuità dello spazio, come qualcosa che contiene già dentro di sé ogni altro evento, fatto o cosa. La posizione di opere come Diario futuro è quindi situata a monte dello sviluppo temporale verticale, tipico della posizione occidentale e della sua idea evoluzionistica di progresso, e sta invece in un luogo dove il tempo i‘ pensabile solo come uno svolgersi ciclico e circolare in cui tutte le possibilità già sono pronta. Per questo i versi di Blake posti ad esergo suonano tanto vicini all’opera di Mambor, ne condividono innanzi tutto l’afflato mistico e la visionarietà poetica, ma soprattutto coincidono profondamente col suo saper gustare la vita attraverso i sensi (l’esperienza primaria) per poi aprirsi al mondo e all’Universo, in un batter d’occhio che scorge l’infinito: “Vedere il mondo in un granello di sabbia/E il cielo in un fiore di campo/Tenere l’infinito nel palmo della tua mano/E l’eternità in un’ora”.
Dal catalogo Threads, Halle am Wasser at Hamburger Bahnhof, Berlin, 2012